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Pubblicato il 20/07/2009 alle 21:38:58 | |
Forever black-eyed tra le atmosfere ipnotiche dei Placebo nella lunga maratona di Italia Wave
The River, Hogni, Hal Flavin, Marta sui Tubi, Pure Reason Revolution, Placebo: le emozioni e le seduzioni elettriche della seconda giornata di Italia Wave dalla prima fila del main stage dello Stadio Armando Picchi di Livorno.
The River, Hogni, Hal Flavin, Marta sui Tubi, Pure Reason Revolution, Placebo: le emozioni e le seduzioni elettriche della seconda giornata di Italia Wave dalla prima fila del main stage dello Stadio Armando Picchi di Livorno.
Livorno, 17 luglio 2009, seconda serata di Italia Wave 2009, main stage. Quando alle 19:30 ha inizio la lunga maratona musicale presso lo Stadio “Armando Picchi” di Ardenza-Livorno, il pubblico è ancora selezionato. Il cartellone d’altronde è coraggioso. Agli headliner Placebo sono affiancati nomi in molti casi ancora oscuri in Italia, sicché il festival si presenta ancora una volta come laboratorio e fucina di talenti, come punto di osservazione di progetti musicali da ascoltare, più che da celebrare pigramente e doverosamente al termine di un percorso indiscutibilmente glorioso. Gli stessi Placebo vi appaiono da indipendenti, non più legati ad alcuna etichetta discografica, con una nuova formazione che ha ricreato nuovi equilibri relazionali e sonori. E non vi giocano a fare i divi maledetti, ma appaiono rigorosi, elegantemente british, quasi stacanovisti delle atmosfere ipnotiche delle loro canzoni, rabdomanti di feedback davanti ai loro amplificatori, pazienti, coerenti e seri creatori di suoni e parole che ormai hanno una loro vita interiore, che nessuna rivoluzione potrebbe mai avere il coraggio di uccidere.
Si comincia con i tranesi The River, vincitori dell’Italia Wave Band 2009 per la regione Puglia: il gruppo porta sul palco livornese il suo rock venato di indietronica frenetica e “addictive”, mostrando grande maturità. Si tratta di una band ormai pronta al grande salto dell’entrata nel mondo discografico: auguriamo loro che avvenga presto. Meno convincenti o meno in linea con il sound della serata ci sono sembrate le tre band successive, comunque interessanti, Hogni, Hal Flavin e Marta sui Tubi. Hogni, originario delle Fær Øer, è presentato da Mixo e Federica Gentile come un incrocio tra Jack Kerouac, Lenny Kravitz e Ben Harper. Non abbiamo avuto modo di verificare con attenzione nei testi un’eventuale attitudine da beatnik, ma di certo in un buon set l’artista e la sua band mescolano e alternano nelle loro canzoni funk e folk, proposte da una voce quasi soul di notevole potenza. Forse più adatti al palco dell’Elettrowave sarebbero stati i lussemburghesi Hal Flavin, che sembrano guardare alla scena francese, tedesca e in generale continentale dell’alternative dance, contaminando però l’electro-rock con il funk. Un po’outsider nel contesto anche i siciliani Marta sui Tubi, protagonisti di un lungo set comunque di grande e sicuro valore, con arrangiamenti originali e scoppiettanti, che sanno graffiare con accelerazioni hardcore punk, rallentare con intensità cantautorale, divertire con briosi momenti crossover o quasi patchanka. Notevole non solo la performance musicale della band, che mostra la sua lunga esperienza live, ma soprattutto le interpretazioni istrioniche di Giovanni Gulino, che danno forza ai testi della band, ironici, disincantati, rabbiosi o malinconici, come nella title-track dell’ultimo lavoro, “Sushi e coca” o nell’amara “La spesa”. Una band da scoprire si sono rivelati i Pure Reason Revolution, nati nel 2003 nel contesto dell’università di Westminster: il loro è un electro-rock raffinato, ben studiato musicalmente nell’elaborazione e costruzione dei pezzi secondo un gusto prog e dotato di un fascino sottile ed etereo. Tra elettronica e chitarre cupe nei pezzi del secondo disco “Amor Vincit Omnia” si contrappongono e affiancano le voci di Chloë Alper, lieve e angelica, e Jon Courtney, poliedrica e incisiva.
Ma sono le 23:30 e il pubblico scalpita nell’attesa dei Placebo. Il trio, ora completato dal nuovo batterista Steve Forrest, sa ben governare la suspence dell’ormai accalcata e numerosissima folla che scandisce il loro nome, come manovrando i fili che reggono quel meccanismo di fascinazione che dà alle loro canzoni un potere magnetico. Così è solo dopo un’intro riffata e prolungata a caricare di pathos l’attesa che il trio sale sul palco, sia in apertura che alla ripresa del concerto per l’encore. Ma non si pensi per questo di avere davanti una band che è ormai clone di se stessa e vive riflettendosi nella sua immagine ambigua e irrequieta.
Il set del gruppo, completato dagli additional musicians Bill Lloyd al basso e alle tastiere, Fiona Brice al violino elettrico e alle tastiere, e Nick Gavrilovich alla chitarra, è tutt’altro che un regno di eccessi esibizionistici e compiaciuti da star: esso si presenta come serrato e intenso, senza respiro tra i 19 pezzi in scaletta, che superano la misura standard delle esibizioni da festival della band, per la gioia degli spettatori. C’è poco d’altronde da dire che non sia espresso nel flusso oscuro delle parole e delle atmosfere delle canzoni. Così Molko, tra i suoi sorrisi misteriosi che ne esaltano la sicurezza consapevole di sé e lo chiudono nel magnetismo indecifrabile del suo carisma, si limita ad annunciare il titolo, quasi ironicamente, della title-track dell’ultimo album, “Battle for the Sun”, brano offerto gratuitamente ai fan del sito ufficiale e diventato velocemente, nel passaparola internazionale, un classico per quell’irresistibile appello, in bilico tra determinazione e residuale estasi onirica, contenuto nelle parole “Dream brother, my killer, my lover”. Oppure ancora interviene a definire ambiguamente come a “buddhist song” un’altra canzone dell’ultimo disco, “The Never-Ending Why”. Per il resto, le uniche parole del frontman sono guidate da scopi eminentemente pratici: enfaticamente chiede al pubblico di fargli un favore, che si rivelerà essere quello che ciascuno arretri di due passi nella parte centrale del palco per mettere fine alla calca eccessiva che sembra preoccuparlo; poco più tardi invece Brian consiglierà di mettere giù per un po’ quelle “fucking cameras” che vede accese dappertutto, per “enjoy life” e vivere le emozioni del concerto senza fissare gli “screens” che brillano anche nelle prime file. Si parte, come di solito nei concerti di questo tour, con le prime canzoni del nuovo disco, eseguite nella stessa sequenza anche dal vivo, per poi regalare al pubblico tuffi nel magma corrosivo e vorticoso dei brani del passato.
Delle irrequietudini giovanili e della sensualità levigata e aggressiva ad un tempo dei primi due album della band resta ben poco: sopravvive solo una “Every You Every Me” riproposta in una versione particolarmente tirata, quasi irriconoscibile in partenza, che ne accentua il ruvido sapore rock, eliminandone le piacevoli morbidezze da singolo pop. La partecipazione del pubblico è richiesta e ottenuta in brani come la cangiante “Special K”, cantata con tutta la forza dell’incanto e del disincanto delle proprie debolezze, o come in una cupa “Infra-red”, ma è più che mai viva anche in canzoni come “Black-Eyed” e “Special Needs”: come il video di quest’ultimo pezzo o del primo singolo estratto da “Battle for the Sun”, “For What It’s Worth”, non hanno un solo protagonista, così l’impressione che lasciano i cori dello stadio livornese è che il pubblico non canti con la band, ma senta nelle canzoni le lacerazioni delle proprie storie personali e le riviva in un rito collettivo gravido di emozioni. Si spazia così dal crescendo impetuoso di “Meds” (che ha un inizio e una pausa rallentata affidata alla sola voce di Molko e successivamente alle tastiere, per poi esplodere in un assolo suadente di Stef Olsdal alla chitarra), alla malinconia di “Happy You’re Gone” fino alla sensualità estenuata del brano conclusivo, “Taste in Men”, che parte con un lungo riff di chitarra che fa trattenere il respiro, mentre Molko si aggira inquieto sul palco, e si sviluppa sinuosa in un’orgia di intense luci rossastre tra le note del basso distorto di Stef. I Placebo non cambiano nel tempo, è vero, ma non potrebbero farlo: il loro sound alternative viscerale e onirico è la traduzione di uno stato d’animo. Che è condannato a non seguire, nella malattia immedicabile di un destino, altra tendenza se non quella interiore. Sicché quando Brian canta “I’m medicated” nella splendida “Follows The Cops Back Home”, non si riesce a credergli. Anche perché “the call to arms was never true”.
Setlist Placebo:
1. Kitty Litter
2. Ashtray Heart
3. Battle For The Sun
4. For What It's Worth
5. Soulmates Never Die
6. Speak in Tongues
7. Follow The Cops Back Home
8. Every You Every Me
9. Special Needs
10. The Never-Ending Why
11. Black-Eyed
12. Happy You're Gone
13. Meds
14. Come Undone
15. Special K
16. Song To Say Goodbye
Encore:
17. Infra-red
18. The Bitter End
19. Taste In Men
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