|
Interviste |
Pubblicato il 10/07/2011 alle 00:12:29 | |
Fausto Pirito: vi racconto i concerti di Vasco Rossi
Fausto Pirito è uno dei più autorevoli giornalisti musicali italiani. Lo abbiamo incontrato in occasione della pubblicazione del libro "Vasco in concerto". Ci ha raccontato delle sue interviste a Tutto e di quella volta che Fabrizio De Andrè....
Fausto Pirìto, calabrese, è nato il 29 settembre 1950 a Caccùri, borgo medievale della Sila jonica. Laureato in Giurisprudenza, cronista dei quotidiani “La Nazione” di Firenze e “Il Tirreno” di Livorno dal 1970 al ’75, poi redattore di Tele Libera Livorno. È stato vice caporedattore del mensile “Tutto Musica & Spettacolo”, direttore artistico del “contest” Rock Targato Italia per oltre 10 anni e garante del festival BresciaMusicArt al fianco di Omar Pedrini (ex leader dei Timorìa). Ideatore del “Tributo ad Augusto Daolio”, nel 2000 ha pubblicato per Giunti “In viaggio con i Nomadi - 7 anni on the road”. Dal 2010 è free lance e vive sulle colline toscane. Da qualche settimana è uscito un altro suo libro, “Vasco in concerto”, ancora per Giunti Editore. Volume che è attualmente primo nella classifica dei libri musicali più venduti in Italia.
AR: Su Vasco Rossi è stato scritto di tutto. Però mancava un libro dedicato ai suoi concerti. Qual è stata la scintilla che ti ha spinto a scrivere con Paolo Giovanazzi “Vasco in concerto”?
FP: «L'idea mi è venuta per caso, dopo aver visto una performance di Vasco al Forum di Assago nel febbraio del 2009. Da qualche anno non lo incontravo né ero andato ai suoi show. Quella sera, però, rivedendo intorno a lui tutti i suoi collaboratori più stretti, che lo hanno accompagnato, magari a singhiozzo, nei suoi trent'anni e più di attività, mi sono detto: perché no un libro che sia il ritratto di Vasco e di questo trentennio di musica italiana attraverso le storie, anche biografiche, dei suoi compagni d'avventura? Un vero e proprio puzzle di situazioni, personaggi, emozioni e soprattutto fatti, per disegnare Vasco in modo inusuale. Tanto lui ha già detto tutto, dal suo punto di vista. E se ha ancora cose da raccontare, come io credo, lo farà con altri mezzi e non con un semplice libro. Ne parlai con Tania Sachs, coriacea ufficio stampa del nostro, e l'ipotesi piacque. Ne parlai poi con Riccardo Bertoncelli, direttore della collana Bizarre della la Giunti editore, che nel 2000 mi ha fatto scrivere “In viaggio con i Nomadi”. Riccardo approvò, con una modifica al mio progetto che ha poi portato, insieme con altri equivoci, a un “contrasto” (spero sanabile) tra me e la Sachs: affiancare alle testimonianze una ricostruzione puntuale e cronologica dei tour del Rossi, dalla fine degli Anni 70 a oggi. Questa sezione, molto impegnativa, è poi stata affidata al giornalista Paolo Giovanazzi che ha assolto in pieno e nel modo migliore il suo incarico. Il tutto, sotto la supervisione di Franco Zanetti, direttore di “Rockol”».
AR: Hai seguito e intervistato Vasco Rossi in periodi diversi della sua carriera. Per restare sul tema del libro, qual è a tuo avviso il tour / concerto migliore della carriera di Vasco?
FP: «Ogni suo tour e ogni suo concerto hanno una storia a sé. Credo però che il primo show di Vasco a San Siro (quello del 10 luglio del 1990 allo stadio di Milano, per essere precisi) sia stato un vero e proprio spartiacque: da quel giorno Vasco è diventato quello che è ancora oggi, la più grande rockstar italiana di tutti i tempi».
AR: Di recente l’artista si è “dimesso da rockstar”. Come hai valutato questa affermazione?
FP: «Quando l'ho saputo, mi ha fatto molto piacere. Dirò di più: in un articolo che scrissi qualche tempo dopo la morte di Massimino Riva (31 maggio 1999) mi auguravo che Vasco smettesse i panni della rockstar già da allora. Con la scomparsa così lacerante di Massimo, secondo me venne a mancare l'anima più trasgressiva del Rossi. La notizia-bomba, inoltre, ritengo che non sia una “bufala”: Vasco non ha certo bisogno di questi trucchetti per richiamare l'attenzione. E poi, lo ha detto chiaramente: dimettersi da rockstar non significa dimettersi da artista. Vedrete, di lui sentiremo ancora parlare a lungo e le "sorprese” non mancheranno».
AR: Ora vorrei ripercorrere un po’ la tua carriera di giornalista musicale. Innanzitutto, quali artisti hanno in qualche modo indirizzato la tua scelta lavorativa?
FP: «Tutto il cantautorato italiano degli Anni 70. A Milano, dopo un decennio di gavetta in Toscana, venni assunto in un settimanale di tv e dintorni (“Telepiù”) e il destino volle che la prima intervista importante affidatami fosse quella a Roberto Vecchioni. Lo incontrai all’aeroporto di Linate, appena tornato dalla Sardegna dove aveva tenuto una serie di concerti. Alla fine di uno di questi, Vecchioni era stato denunciato per aver fumato uno spinello con alcuni suoi fan. La cosa fece scalpore, così il servizio si trasformò in una opportunità per fare chiarezza tra droghe leggere e droghe pesanti. Concetto di non poco conto per quei tempi, quando l’opinione pubblica era solita “fare di tutta l’erba un fascio” (e la citazione della parola “erba” è naturalmente voluta). Anche con Vasco Rossi, che ho poi conosciuto bene quando ormai ero passato dal settimanale televisivo a un mensile nazional-pop (“Tutto Musica & Spettacolo”), non mancarono le occasioni per affrontare argomenti simili. Un servizio-intervista con lui, lo intitolai: “Te la ricordi la rivoluzione psichedelica?”, e nel botta e risposta Vasco andò giù duro contro i benpensanti che in lui e quelli come lui vedevano il diavolo. Era il 1984. Con il Rossi e quelli della sua Steve Rogers Band riuscii a stabilire un bel rapporto fatto di amicizia e interessi comuni. Rapporto poi rinsaldato nel tempo, fino ad arrivare a oggi. Giorno dopo giorno, come aveva pronosticato il direttore di “Telepiù” Daniele Jonio, superbo esperto di jazz e affabulatore unico nel suo genere, il lavoro mi dava sempre più spesso la possibilità di conoscere il fior fiore della musica di casa nostra. De Gregori, Alice, Dalla, Pino Daniele, Edoardo Bennato, ancora Battiato, Guccini… fino ad arrivare a Fabrizio De André. E anche gli artisti stranieri cominciavano a fare capolino. Nel maggio dell’85, inviato a Parigi, mi capitò di fare due incontri-intervista importanti: il primo con Sting in occasione del lancio del suo straordinario Lp di esordio come solista, “The Dream Of The Blue Turtles”, l’altro con Bill Wyman dei Rolling Stones che stava promovendo un disco tutto suo, i cui introiti erano destinati alla ricerca medica. Ma, anche per dare spazio a un mio giovane collega, negli anni successivi preferii continuare a coltivare il mio “orto” italiano».
AR: Ogni volta che leggo “Fausto Pirito” viene automatico associarti a “Tutto Musica & Spettacolo”, straordinaria rivista mensile che per anni ha fatto conoscere la musica a tanti giovani. Quali ricordi hai di quel periodo?
FP: «A “Tutto Musica & Spettacolo” ho lavorato dal 1982 al 2003, quindi è stato il “cuore” della mia attività da professionista. A “Tutto” ho imparato il mestiere, passando dalla macchina per scrivere e dalle linotype al computer e Internet. Ringrazio il mio destino, anche perché quel mensile aveva una audience importante fra i teenager e essere diventato capo-servizio prima, vice-caporedattore poi è stata una bella soddisfazione, conquistata anche con una certa incoscienza. Infatti, Nel 1987 feci causa alla Silvio Berlusconi Editore, giocando il tutto per tutto. Da tempo svolgevo il ruolo di capo-servizio. Per riconoscermelo, il direttore editoriale dell’epoca mi propose di lasciare il sindacato (allora ero fiduciario di testata della redazione di “Tutto Musica”). Naturalmente non accettai e alla fine del 1989 riuscii a vincere la causa. Per reazione, l’editore decise di sollevare il direttore del mensile dal suo incarico, visto che davanti al giudice aveva ammesso le mie funzioni. E, ancora per reazione, il nuovo direttore mi convocò per dirmi a quattr’occhi che era stato mandato lì “per farmi fuori”. Non mi scomposi. Continuai a fare il mio lavoro da capo-servizio e dopo un paio di mesi riuscii a conquistare la sua fiducia. Quello che doveva essere la mia “fine” si rivelò un colpo di fortuna. Un anno dopo, ecco un nuovo direttore che stavolta mi dà carta bianca per la confezione del giornale. “Tutto Musica” a quei tempi poteva contare su oltre 200 mila copie di diffusione che corrispondevano a un milione di potenziali lettori. Avere fra le mani un mezzo di comunicazione così potente e seguito, soprattutto dai teenager, mi premise di diventare direttore artistico del contest “Rock Targato Italia” insieme con Stefano Ronzani, uno dei più apprezzati giornalisti italiani di musica rock che lavorava per il settimanale “Mucchio selvaggio”. Il nostro connubio funzionò alla grande, soprattutto per merito di Stefano che accettò di collaborare con me, capo-redattore “in pectore” di un giornale nazional-popolare. Con Ronzani cominciai a bazzicare gli ambienti dell’underground. Dal 1991 al 1995 passarono nella nostra rassegna gruppi come Gang, Rats, Litfiba, Timoria, Casino Royale, Moda, Avion Travel, Ritmo Tribale, Rocking Chairs, Settore Out, Karma, Extrema, Casino Royale, Diaframma, Marlene Kuntz, Estra, Scisma, Radio Fiera, Suburbia, Frangar Non Flectar, Massimo Volume, Umberto Palazzo e il Santo Niente, Interno 17, Vanadium… ai quali affiancavamo nomi conosciuti o agli albori del successo, dai C.S.I. agli Skiantos, a Eugenio Finardi, dai Modena City Ramblers a Carmen Consoli, Negrita, Ligabue. Spesso la manifestazione si svolgeva in locali “border line” come Il Sorpasso e l’Indian Saloon di Milano. E poteva capitare che in quegli stessi posti transitassero anche grandi artisti stranieri, da Peter Gabriel (che a quei tempi si occupava principalmente di musica etnica) a gruppi ancora sconosciuti in Italia (i Pearl Jam, ad esempio, si esibirono per la prima volta nel nostro Paese proprio al Sorpasso davanti a un pubblico di qualche decina di persone)».
AR: Ogni tanto mi capita di riascoltare le musicassette allegate al giornale, dove c’erano le tue interviste ai big della musica italiana. Ricordo Jovanotti, lo stesso Vasco Rossi… A pensarci bene una cosa del genere oggi sembra “fantascienza”, eppure all’epoca fu una grande innovazione, stranamente non imitata da altri periodici, neanche nell’era del CD. Come nacque quell’iniziativa?
FP: «Diciamo subito che siamo agli inizi degli Anni 90. Internet era ancora “fantascienza”, appunto. Nel tempo, parlando con gli artisti più diversi, mi ero sentito dire che i giornalisti, nelle interviste, riportano sempre cose non esatte se non inventate. Pensai, allora, che la cosa più semplice, per ovviare a questo inconveniente, era di “dare la linea” direttamente agli artisti, facendone sentire le parole dette, il tono della voce, così gli ascoltatori avrebbero potuto interpretare da soli il “pensiero” dei loro beniamini. E mi inventai “RadioTutto”, una cassetta di 30 minuti di intervista con i protagonisti della musica italiana, con tanto di brano inedito come colonna sonora. Guarda caso, proposi l'idea proprio a Vasco, uno che le cose giuste le annusa da lontano... Facemmo l'intervista “Vasco dalla A alla Z” nei suoi studi di Bologna. Insieme decidemmo gli inevitabili tagli per stare nei tempi della cassetta. Insieme ci divertimmo a fare questo esperimento, che funzionò. “Tutto” vendette oltre 200 mila copie e il mese dopo non fu difficile convincere Jovanotti (il brano inedito che mi regalò fu “Penso positivo”...) a fare altrettanto. Dopo Vasco, chi avrebbe potuto dire di no? In fila, per altri tre mesi, incamerai De Gregori, Dalla e persino Guccini. Poi, per un'altra quindicina di uscite, “RadioTutto” fece da trampolino di lancio a molti giovani artisti. In questa seconda fase, la cassetta di cui vado più orgoglioso fu “Ci ritorni in mente”, in cui assemblai le cover di una serie di successi di Lucio Battisti realizzate da “outsider” come i Litfiba».
AR: Ai tempi di “Tutto” risale anche il tuo legame con Beppe Carletti, con il quale hai condiviso tanti viaggi che poi hai raccontato nel libro “In viaggio con i Nomadi”. Come nacque l’idea del “Tributo ad Augusto”?
FP: «Sempre agli inizi degli anni '90, io e Stefano Ronzani, grazie al buon nome che ci eravamo fatti, fummo eletti rispettivamente presidente e vice presidente del Gruppo Giornalisti Musicali, in pratica l’associazione dei critici del Centro-Nord Italia. Forti di questo nuovo incarico, alle fine del 1992 decidemmo di mettere il nostro potenziale di comunicazione al servizio di cause per noi giuste. Così, un amico come Gianni Maroccolo dei C.S.I. decise di registrare un cd della collana “Frammenti” dedicandolo alla lotta per la libertà del Tibet e al rispetto dei diritti umani nel Paese delle Nevi. Da quel momento, e per tuti gli anni '90, riuscimmo a organizzare una trentina di concerti a favore della “causa tiebatana” in collaborazione con l’Associazione Italia-Tibet, di cui ero diventato consigliere nazionale e responsabile dell’ufficio stampa. Ma una ulteriore svolta si verificò per me sempre alla fine del 1992. Il 7 ottobre morì Augusto Daolio dei Nomadi. Io lo avevo conosciuto grazie a Renzo Maffei. Renzo, pontederese, compagno di avventure di vecchia data, era stato protagonista delle lotte operaie degli anni '70, sempre sulle barricate, in mezzo a tutte le battaglie politiche di quei tempi, guerriero a difesa della libertà, dei diritti umani. Fra le sue tante iniziative c’era anche “Salaam Ragazzi dell’Olivo”. Renzo mi parlò, con lo slancio che lo caratterizzava, di quella Associazione che lui aveva creato per aiutare i bambini palestinesi nei territori occupati da Israele e del sostegno che Augusto Daolio aveva dato alla fine degli Anni 80 a “Salaam” scrivendo una canzone dedicata a questo tema, poi pubblicata come singolo. Da parte mia, visto che con il giornalismo ho sempre cercato di dare voce a chi non ne ha, di far parlare i fatti e le cose intorno a gente che altrimenti non avrebbe l’opportunità di farsi ascoltare, pensai che quella sarebbe stata un’occasione buona per tutti: per “Salaam”, per i Nomadi che avevano perso il loro leader con il rischio di scomparire dalla scena musicale, per me che così potevo dare un senso compiuto al mio mestiere. Decisi allora di contattare Beppe Carletti, il tastierista e co-fondatore del gruppo emiliano, proponendogli di lanciare il Premio “Tributo ad Augusto” con l’appoggio del Gruppo Giornalisti Musicali. Una manifestazione che, per non far dimenticare Daolio, di anno in anno avrebbe assegnato a un personaggio, protagonista della musica italiana, una Targa e una somma di denaro da destinare ad Associazioni umanitarie. Decidemmo di “coinvolgere”, con una certa incoscienza ma con un ritorno d’immagine sicuro, l’allora astro nascente Jovanotti e l’operazione prese il via. Sono passati vent’anni da allora e il “Tributo” è diventato un appuntamento che tutti gli anni, intorno al 18 febbraio, data del compleanno di Augusto, richiama a Novellara, vicino Reggio Emilia, oltre 10 mila persone. Fra gli artisti premiati nelle prime edizioni: 99 Posse, Agricantus, Alberto Foris, Piero Pelù, Massimo Bubola, Samuele Bersani, Daniele Silvestri e, in questi ultimi anni, Elisa, Roberto Vecchioni, Ligabue, Zucchero, Biagio Antonacci… L’anno prossimo celebreremo il ventennale e già stiamo lavorando per questo. Grazie al “Tributo” cominciò anche il mio girovagare nel mondo al fianco dei Nomadi. L’idea era semplice: in nome di Augusto, decidemmo di portare con la musica un messaggio di partecipazione e solidarietà a popoli e situazioni sociali “dimenticati” dalla storia e dalle cronache. Dal 1993 al 1999 facemmo tappa con concerti e manifestazioni in Cile (“gemellati” con gli Inti Illimani), Cuba, India (dove incontrammo il Dalai Lama del Tibet), Palestina (a Gaza fummo ricevuti nel suo “bunker” dal presidente Arafat), Chiapas (con noi venne anche Jovanotti), South Dakota, Perù, Marocco e Albania. Intorno a tutte queste esperienze, nel 2000 pubblicai il libro intitolato “In viaggio con i Nomadi – 7 anni on the road” (che è ancora reperibile attraverso il sito della Giunti Editore): il mondo con tutti i suoi problemi è il grande paesaggio sullo sfondo di questo libro, un tuffo ai quattro angoli del pianeta, un “diario di bordo” con i piedi piantati a terra ma con la testa ancora piena di ideali. Un’ultima annotazione: nel 1995, grazie alla disponibilità della casa discografica dei Nomadi, facemmo uscire il cd “Tributo ad Augusto” che raccoglie le cover dei successi del gruppo emiliano interpretate da Alice, C.S.I., Dennis & The Jets, Teresa De Sio, Gang, Inti Illimani, Ligabue, Modena City Ramblers, Gianna Nannini con i Timoria, Elio Revé y Su Charangon ed Enrico Ruggeri. Francesco Guccini, perla fra le perle, accettò di partecipare concedendoci una sua versione d’epoca di “Noi non ci saremo” cantata con i Nomadi. L’operazione andò bene: oltre 100 mila le copie vendute e un risultato economico non trascurabile. Dei 150 milioni netti guadagnati, 50 andarono a “Salaam Ragazzi dell’Olivo”, 50 ai bambini tibetani nati in esilio in India e 50 ai “moleques de rua” di San Paolo del Brasile».
AR: In tanti anni hai incontrato, intervistato e frequentato numerosi artisti. Hai qualche aneddoto da raccontare ai nostri lettori?
FP: «I ricordi sono tanti, al 99% belli e gratificanti. Allora, ne scelgo uno per tutti. Io non ho mai intervistato Fabrizio De André, per pudore e timore reverenziale. A “Tutto” c'era Peppo Delconte, giornalista e critico molto più navigato di me. Così, quando si doveva fare un servizio con De André, lasciavo a lui l'onere e l'onore. Io, però, ero sempre presente alle conferenze stampa di Fabrizio e, non so come, ero entrato nelle sue simpatie tanto che, al momento del pranzo o della cena, mi voleva di fronte a lui. Probabilmente, con me il “Maestro” si sentiva tranquillo, non lo avrei mai importunato con scontate domande di lavoro. In più, Fabrizio sapeva della mia amicizia con Cristiano, che conoscevo dall'epoca della sua band, Tempi Duri. Una sera, seduti a tavola, raccontai a Fabrizio di aver acquistato da poco un cascinale sulle colline pisane (dunque, siamo ancora agli inizi degli anni ‘90). Lui si dimostrò molto interessato a questo argomento e alla fine mi consigliò di piantare, in fondo al giardino, fiori bianchi a non finire affinché, anche durante le notti senza luna, se ne scorgesse la profondità. Questo spiazzo della mia terra, ogni volta che ci vado, mi rimanda a Fabrizio... Sempre in quella occasione, De André mi disse che Cristiano era il più sofisticato musicista che lui avesse mai incontrato, e non perché era suo figlio. “Pensa”, mi confidò, “già da piccolissimo riconosceva anche le sfumature più sottili delle 7 note. Un giorno me ne sono accorto perché, battendo un cucchiaio su una bottiglia, lui era capace di distinguere diesis e bemolle man mano che il vino diminuiva nella bottiglia stessa... dalla quale io bevevo un bicchiere dopo l'altro...”. Che dire? Un padre così non è davvero cosa da tutti, no?».
AR: Secondo te, qual è lo stato di salute della critica musicale italiana?
FP: “Io mi sono sempre considerato un cronista e non un critico di musica. Dunque, non mi permetterei mai di dare giudizi su una materia e un settore che conosco solo di striscio».
AR: Quale consiglio ti senti di offrire a chi oggi vuole misurarsi, anche solo per passione, con il giornalismo musicale?
FP: «Penso che la gente, in generale, sappia sbagliare da sola senza bisogno di consigli. Le giovani generazioni, oltretutto, stanno crescendo con Internet, uno strumento senza confini e che non sappiamo dove ci porterà. Posso solo suggerire, dunque, di approfondire al massimo le conoscenze in questo ambito, per non trovarsi spiazzati non dico tra 10 anni ma neanche il mese prossimo...».
AR: Dopo anni di onorata carriera, oggi ti godi la pensione, ma continui a occuparti di musica. Per concludere, quali sono i 10 dischi di cui Fausto Pirito non potrebbe mai fare a meno?
FP: «Posso essere sincero? A me la parola “pensione” fa una grande tristezza... E siccome le parole sono importanti (Nanni Moretti docet!), preferisco dire che a 60 anni ho avuto la fortuna di entrare in regime di “fine vacanza mai!”. Molti mi chiedono se mi annoio e io rispondo che la noia è un'arte da coltivare con grande rispetto, sapendone cogliere tutti gli aspetti più positivi (e sono tanti). Per questo ho intenzione di riprendere in mano tre testi che ho amato negli Anni 70: il “Trattato del saper vivere a uso delle giovani generazioni”, manifesto dei Situazionisti francesi degli Anni 60, “The Psychedelic Experience” di Timothy Leary e “Marijuana e altre storie”. La classifica che mi si chiede è quasi impossibile da stilare, per uno come me che ama la musica buona a 360 gradi. Allora, per gioco, ecco il mio elenco (senza graduatoria) dei 10 artisti stranieri e dei 10 italiani (con, fra parentesi, il titolo di una canzone o di un album di riferimento) che più hanno segnato il mio percorso di vita. Stranieri: Led Zappelin (“Stairway to Heaven”), Doors (“Light my Fire”), Grace Slick dei Jefferson Airplaine (“Manhole”), Pink Floyd (“Dark Side of the Moon”), Jimi Hendrix (“Foxy Lady”), Genesis (“Selling England by the Pound”), Talking Heads (“The name of this Band...”, doppio live del 1982), Carlos Santana (“Caravanserai”), CSN&Y (“4 Way Street”), Janis Joplin (“Summertime”). Italiani: Fabrizio De André (“Crêuza de mä”), Franco Battiato (“L'ombra della luce”), Francesco Guccini (“Metropolis”), Alice (“Park Hotel”), C.S.I. (“In Quiete”), Nomadi (“Dio è morto”), Francesco De Gregori (“Rimmel”), Mina (l'opera omnia), Edoardo Bennato (“Sono solo canzonette”), Vasco Rossi (“Va bene, va bene così”).
Chi vuole contattare Fausto Pirito può scrivere a fausto.pirito@poderelemurella.it
Articolo letto 6703 volte
|